Ritornare in serie C...
Qualche giorno fa, durante il fuori onda di una trasmissione televisiva regionale, ho cercato di spiegare al giornalista alessandrino al mio fianco una delle principali difficoltà incontrate nel mio ritorno in serie C. È fuor di dubbio che un atleta che decide di scendere di categoria, forte dell’esperienza accumulata nel corso del tempo, debba contribuire in maniera evidente ad aumentare il livello della performance di squadra. Aspettative generali e responsabilità individuali aumentano di pari passo al senso del dovere nell’ottenimento dei risultati di squadra domenicali. Apparentemente, agli occhi degli spettatori, può risultare tutto scontato ed è più che legittima l’idea comune che un calciatore fattosi apprezzare nelle serie maggiori debba per forza fare la differenza in un contesto inferiore. In realtà non è sempre così; le motivazioni personali cambiano repentinamente e spesso può capitare che adeguarsi ad un livello con caratteristiche generali diverse, può mettere in crisi quel sistema mentale interiore consolidato negli anni. Cambiare quindi non è mai facile. Conscio delle possibili difficoltà che avrei potuto incontrare ho dovuto assorbire, soprattutto nelle prime uscite ufficiali con la maglia grigia, il tipico processo di adattamento nella nuova categoria. Il doppio salto (serie A, serie C) mi ha costretto ad una autoregolazione ambientale che ha caratterizzato la mia prima fase del campionato delineandola come uno “shock isolato” di assestamento psicologico. Concentrato nelle primissime quattro, cinque partite, l’effetto straniante percepito ha sfasato le mie coordinate rigirandole secondo la nuova dimensione di cui faccio parte. Una dimensione nella quale dall’ambiente di gioco viene sradicata gran parte degli elementi che contornano la domenica tipica di serie A. La struttura e la capienza degli stadi più chiusi e collegati nei loro reparti (curva, tribuna centrale, distinti), la presenza di telecamere a bordo campo, dietro le porte o addirittura negli spogliatoi, l’affluenza di migliaia di spettatori sono tutti elementi che uniti tra loro componevano l’ingranaggio meccanico che azionava la mia abitudinaria regolazione emotiva in preparazione alla partita. Che dire poi della maggior parte dei dettagli confezionati per fini televisivi: entrata in campo lenta, presentazione delle squadre e inno della serie A, maxischermi colorati e musiche ai gol, i cartelloni pubblicitari elettronici con i loro led colorati a qualche metro dalla linea laterale. Tutte piccolezze che regolavano il mio ambiente interno sintonizzandolo su onde attentive di un certo tipo. Per non parlare poi dei vibranti incitamenti dei supporters che con i loro cori aumentavano considerevolmente il numero di decibel e dell’onda sonora del pubblico circostante che incorniciava la partita in un quadro ogni volta diverso per toni colori ed emozioni. La presenza della terna arbitrale classica, del quarto uomo e, fino allo scorso anno, degli arbitri addizionali di linea. Il terreno di gioco sempre curato, morbido e spettacolare in qualsiasi impianto. Uno ad uno, ogni singolo elemento venuto a mancare mi ha ricatapultato su un pianeta che avevo conosciuto solamente nella mia prima vera esperienza professionistica all’età di vent’anni. Ritornare in un contesto più povero e austero dunque ha necessitato di un cambiamento interno motivazionale. L’effetto come ho già detto è stato straniante. Di colpo, senza tutto ciò, ho dovuto ricostruire un nuovo meccanismo regolatore che mi consentisse di concentrare la giusta dose di energia; inizialmente ero convinto che per “combattere” potenziali cali di concentrazione (dettati da una possibile apatia motivazionale) dovessi mantenermi ancor più saldo ai livelli oramai consolidati: in realtà le prime uscite sono state rivelatrici di un approccio emozionale alla partita eccessivo. In parole povere la concentrazione che mettevo non era consona al contesto; sprecavo elevate energie nervose che in realtà venivano sperperate inutilmente e di conseguenza le prestazioni venivano condizionate nel bene e nel male da questo spreco non voluto. L’entrata in campo per il classico warm up pre gara è stato il momento più delicato dei primi tempi: la carica che avevo in corpo andava a sbattere con un climax generale di altro tenore; mi guardavo attorno, lo stadio, le poche persone presenti, l’assenza di una vera e propria cornice sportiva ufficiale e di prestigio. Non mi rendevo conto quale fosse la linea psicologica giusta da seguire. Poi, a forza di tentativi, ho trovato il modo per uscirne. Facendo una semplice similitudine, ho capito che mi stavo servendo di una automobile per percorrere una decina di chilometri di una strada in mezzo alla campagna. E l’iniziale processo di adattamento, seppur brusco, mi è servito nel comprendere che questa strada è molto più piacevole e coinvolgente percorrerla a piedi per gustarsi meglio il viaggio.