ATTITUDINE (2)

Durante un Bari Genoa, Campionato Nazionale di Serie B, anno 2005.

Mi sta puntando palla al piede, defilato, a qualche metro dall’area di rigore. Sta attendendo la sovrapposizione del terzino alla sua destra supportato dal pubblico che ad ogni azione pericolosa aumenta la carica sonora. L’incitamento collettivo, prima indefinito e simile a una specie di brusio di fondo sovrastato dai cori della gradinata nord, man mano che la sfera si avvicina all’area, si concentra sulle gambe dell’avversario che ho di fronte, elevando il livello dei decibel presenti. Ogni attacco rossoblù, qui al Marassi, è temibile; ogni attacco dei rossoblù è un evento sonoro da vivere, indescrivibile, un boato, il sole, il manto erboso e ad una calma interiore senza precedenti. Non lo so se questa calma l’ho acquisita nel tempo o se è una sensazione sepolta sotto macerie di negatività motivazionale, so solo che oggi mi sento rilassato e padrone della situazione. Nulla mi preoccupa. Il senso del controllo, la reattività mentale, i radar invisibili. I neuroni schiantano informazioni al corpo che risponde nel suo consueto movimento. A 22 anni, in uno stadio da serie A, l’atmosfera assomiglia terribilmente a qualcosa di nascosto, immaginato, percepito. Fino a poco tempo fa, un’esperienza del genere era pura utopia, un sogno inesistente di una mente senza fantasia. E invece ora in una primaverile domenica pomeriggio me la sto godendo, Genoa-Bari, loro a caccia della promozione in serie A, noi della salvezza. Amo questi momenti, la pressione uditiva incanalata nei giusti incroci mentali mi carica. Sentire lo stadio che ti fischia ad ogni tuo possesso palla e applaude quando i tuoi avversari la recuperano è uno stimolo potente, determinante. Stupendo. Diego Milito mi punta. Indietreggio, abbasso il baricentro e fletto le gambe come al solito, come la prima volta, automatismo meccanizzato, mentalizzato. Guardo l’argentino nelle pupille, gli entro in testa, scorgendo il suo compagno alla mia destra che si inserisce in diagonale nello spazio alle mie spalle. Lo so, la darà lì, lo vedo nei suoi occhi. L’argentino, con il piede destro, passa la palla alla mia sinistra, io allargo la gamba. Godo. Intercetto. Godo. Il massimo che posso fare per la mia squadra. L’azione offensiva, l’ennesima, viene interrotta in maniera pulita dal mio intervento che destabilizza la possibilità di penetrazione in area degli attaccanti avversari. Tra le strade mentali della mia concentrazione ascolto con le orecchie l’improvvisa reazione unanime dello stadio che interrompe bruscamente la pressione sonora producendo un suono basso e dismesso che la mia testa elabora come un no. Capto pochi essenziali attimi di silenzio, feedback positivo del gesto atletico appena concluso, nel quale lo stadio sembra essersi svuotato, come la mia testa. L’azione è sfumata. Domino le zolle attorno a me, il senso del controllo pervade le mie membra e mi sento padrone della situazione. Oggi non passerà nessuno. Passo la palla a Davide che riparte cercando di guadagnare metri.