L' ETERNO DILEMMA: RISULTATO VS PRESTAZIONE

Premessa: le considerazioni riportate sono spunti di riflessione sui quali si è già dibattuto, si dibatte e si dibatterà in futuro, in un gioco che riavvolge continuamente il proprio nastro. Quelle che propongo sono considerazioni probabilmente incomplete e limitate. Forse anche errate. Sono solamente un punto di vista.

Si discute spesso e volentieri su quale sia la modalità d’ approccio ideale che un allenatore deve avere sui giovani calciatori e generalmente il riferimento va due tipologie ben distinte: la prima incentrata sul risultato, la seconda sulla prestazione. Fin qui il tema trattato è chiaro e la differenza tra le due modalità è abbastanza limpida a tutti. Se nel primo caso l’obiettivo principale dell’ allenatore  è  volto alla pragmatica del risultato finale della partita (del campionato), nel secondo assume maggiore rilevanza la performance in sè ed il miglioramento globale della squadra e del ragazzo. E’ un discorso trito e ritrito, condiviso in tutte le categorie, di cui si sente parlare in maniera similare anche ai livelli più alti del calcio professionistico. Quante volte si è messo sul piatto dei processi l’ approccio dei vari allenatori? Quante volte si sono contrapposte le fazioni dei risultatisti pro-Allegri e dei giochisti a la De Zerbi? I primi che mettono i 3 punti davanti a tutto e i secondi che pur non disdegnando la vittoria, vogliono proporre-imporre un’idea tattica o tecnica ben precisa? Le varie mentalità degli allenatori, il loro modo di far giocare una squadra in un determinato club, danno già un’indicazione sommaria a quale delle due tipologie d’approccio sembrano fare affidamento. Questo giochino apparentemente innocuo che distingue due modi di intendere “la partita[1] diventa un argomento di dibattito che nell’ambito del settore giovanile assume una rilevanza prioritaria. Il motivo è presto detto: si ritiene che la crescita corretta e il miglioramento di un ragazzo debba essere rispettosa della sua emotività e del suo sviluppo. Perciò in linea teorica, si è stabilito che la prestazione di una squadra e di un giovane debbano venire prima del risultato assecondando l’idea che solo in questo modo si potrà avere un corretto percorso di sviluppo calcistico nei giovani.  Infatti quasi tutti gli addetti ai lavori, attraverso i quotidiani, sono concordi nel ritenere che la crescita (tecnica, tattica, fisica, psicologica, umana e chi più ne ha più ne metta) della squadra e del singolo non per forza debba essere vincolata al risultato finale di una partita: se gli undici hanno “giocato bene” nonostante la sconfitta sul campo, l’obiettivo è stato comunque raggiunto e il ragazzo, secondo tale assunto, ha dunque la possibilità di sperimentare, di sbagliare, di esprimersi come testa cuore e gambe gli dicono, senza avere l’ansia o la preoccupazione di non riuscire a portare a casa i tre punti. L’ansia e la preoccupazione dei tre punti… 

La riflessione che pongo è questa: senza entrare troppo in costrutti psicologici (motivazione al risultato o al compito, definizione di obiettivi e quant’altro), fermo restando che l’importanza dell’errore è fondamentale per la crescita e che bisogna dosare con cura richieste e pressioni ad una certa età, perché dobbiamo sempre ragionare in termini di contrapposizione e sbilanciamento tra risultato e prestazione? Perché non si ragiona mai sull’ equilibrio tra di esse? E a questo punto, se si ragiona sull’equilibrio tra le parti, perché non stabilire una sorta di linearità concettuale?

RISULTATO - PRESTAZIONE

La crescita può esistere se c’è un obiettivo “tangibile” da raggiungere (in questo caso la vittoria in una partita).

Credo non ci sia sport dove non si ragioni in termini di vittoria e di sconfitta. E’ lo sport stesso che la mette su questo piano: perciò, eliminare l’obiettivo sul quale si fondano le prestazioni agonistiche è come togliere linfa energetica ad ogni atleta. La vittoria è il core motivazionale di ogni sportivo. Non dargli importanza significa togliere una parte del valore intrinseco che contiene una sfida. Ovvero il rischio di perdere. Non credo esista allenatore che non voglia vincere le partite e non avere l’assillo del risultato determina sicuramente una minore motivazione generale. Ritengo quindi la prospettiva generalizzata di “non dare importanza al risultato” una prospettiva che rischia di veicolare i giovani verso solo una delle due facce “della partita”. Solo una. Oltretutto priva della controparte vitale.

Riallacciando la disquisizione al discorso fatto in precedenza è fuor di dubbio che lasciare un giovane atleta libero di sbagliare e non ossessionarlo in termini di vittoria/sconfitta può risultare utile per non mettergli pressione. Ma in un mondo dove prima o poi il giovane dovrà affrontare la vita adulta e dove i momenti di pressione saranno presenti – eccome se saranno presenti - credo sia quantomeno necessario, regolando le richieste in base all’età, metterlo di fronte a un certo grado di pressione. Soprattutto perché un domani, si ritroverà di fronte a situazioni professionali nelle quali è costretto a dover raggiungere dei risultati. Non colpevolizzerei troppo i cosiddetti allenatori che puntano al risultato. Vuoi o non vuoi, anche quelli servono: certo, alcune derive comportamentali sono deleterie e controproducenti ai fini della crescita nei giovani, generano un aumento di stress e meno divertimento. Ma questi allenatori inducono il ragazzo a convivere con una pressione che, prima o poi, nella vita di ognuno, ritornerà. Non significa anche questo crescere? Non esiste l’ allenatore ideale, probabilmente per caratteristiche alcune persone sono più portate di altre ad entrare in empatia con adolescenti. E da tutte, indistintamente, è possibile trarre insegnamenti, punti di vista e attitudini. A rigor di logica nell’arco di una carriera giovanile un atleta incontrerà allenatori incentrati sul risultato e altri sul gioco e questa varietà di esperienze lo porterà a selezionare i propri criteri esistenziali. Quindi si sbilancerà o da una parte o dall’altra. Ma queste non sono le uniche due alternative. Esiste la terza: rimanere sull’equilibrio della linea risultato/prestazione, una possibilità coerente di approccio che l’allenatore potrebbe utilizzare, possibilità scevra da qualsiasi contraddizione. Intendere la sfida agonistica su questo bilanciamento potrebbe equivalere a far conoscere al ragazzo tutte le facce della stessa medaglia. Dello sport e della vita.

 

[1] La vita se vogliamo essere più filosofici: l’avere e l’essere non sembrano ricalcare un po' le stesse linee concettuali dei risultatisti e dei giochisti?