APPENDERE GLI SCARPINI AL CHIODO

Considerazioni, a distanza di due anni dalla fine con il calcio giocato.

 

Appendere gli scarpini al chiodo, due anni fa, non è stato così traumatico. L’appagamento per la conquista della Serie B con l’Alessandria, obiettivo che mi ero posto quattro anni prima e che aveva indirizzato tutte le scelte ed energie nervose sul campo, ha chiuso definitivamente il cerchio del calcio giocato. Meglio di così, non poteva andare. Tra le innumerevoli possibilità di esistenza calcistica ultima in cui un calciatore può incorrere, mi è stata assegnata probabilmente la migliore che potesse accadere. Gioia e senso di appagamento interiore non sempre si ritrovano nel momento esatto di “morte professionale” e per raggiungerle in extremis ci vuole anche parecchia fortuna. Dovessi descrivere l’articolato mondo decisionale che ha veicolato le scelte degli ultimi quattro anni di vita pallonara, probabilmente mi ritroverei a rappresentare una mappa sofisticata e indecifrabile dove la chiarezza risiede solo nella globalità delle mie personali e per certi versi assurde convinzioni. Lo slancio energetico della chiusura del cerchio si è dunque riverberato nel tempo e continua a riverberarsi in tutto quello che faccio. Si sente spesso parlare dei momenti duri nel post carriera, della nostalgia del campo e dello spogliatoio, delle chiacchere e delle azioni di gioco che vengono a mancare all’improvviso. Fino ad oggi, 1 giugno 2023, la mancanza di tutte queste cose non la sento per niente. Forse arriverà, prima o poi. Ma posso dire con ragionevole convinzione (e qui devo ringraziare il fatto di essere stato subito inserito in uno staff tecnico e di percepire sempre quell’aria di calcio che fa bene ai polmoni), che smettere è stato come liberarsi di un peso. Suonerà blasfemo ma è così. La voglia di giocare fino a 38 anni ha limitato sempre di più la curiosità che avevo nei confronti del gioco. Mi rendo conto solo ora che la fatica dell’ultimo anno, condita anche di un infortunio di media gravità (2 mesi e mezzo di stop), era dettata non solo dalla vecchiaia sportiva che mi consumava, ma dalla sensazione di battere sempre gli stessi percorsi mentali triti e ritriti in anni di allenamenti. Il campo di gioco stava riducendo sempre di più la curiosità verso gli aspetti meramente operativi: la tecnica del passaggio, i movimenti nella zona mediana, tutte le conoscenze che avevo appreso da centrocampista centrale stavano sensibilmente perdendo il loro peso specifico diventando perlopiù abitudinarie e prive di interesse. Lo sapevo, o meglio, avevo il vago presentimento che sarei dovuto incorrere anche in queste “normali” condizioni della terza età calcistica, ma d’altronde, se ti sei testardamente prefissato un obiettivo sei disposto a qualsiasi cosa, purchè si avveri.

 

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