Felice Accame per Notiziario del Settore Tecnico, numero 6 del 2022.
- Spesso delle persone che incontriamo – che anche con un po’ di consapevole approssimazione amiamo dire di aver conosciuto – ci facciamo un’idea piuttosto monolitica. Il tale è così e cosà, ha questo carattere, la pensa così, ha queste capacità, e così via. Solo in rari casi, in circostanze determinate perlopiù da improvvise rotture, dalle deviazioni dalla cosiddetta normalità – incidenti, tragedie, casi fortuiti e imprevedibili –, perché costretti dall’esigenza di far quadrare i conti, siamo disposti a rivedere la ‘confezione’ in cui avevamo posto la persona in questione arricchendola di qualche variazione (“non avrei mai immaginato che proprio lui/lei…”, etc.) che viene a modificarne l’immagine in modo definitivo e irreparabile. Ecco che, allora, l’altro si rivela per pensieri e comportamenti che non gli avremmo mai attribuito, perché, fino ad ora, rimasti sottotraccia, taciuti e taciti, a noi nascosti e, pertanto, da noi ignorati.
- A maggior ragione, questo può accadere allorché la persona di cui si parla è un calciatore. A seconda del nostro ruolo, lo osserviamo in campo, allo stadio o in televisione, o sul campo di allenamento o nello spogliatoio confuso tra i compagni di squadra e gli altri addetti ai lavori. Per noi che, in un modo o nell’altro, ci abbiamo a che fare, questo calciatore è un insieme di caratteristiche perlopiù reciprocamente coerenti e suddivise per ambiti di analisi: tecnicamente è così e cosà, tatticamente, psicologicamente, umanamente, culturalmente, etc., a seconda di quanto siamo disposti ad approfondire l’analisi. Stiamo costruendo quel suo stereotipo che, presumibilmente, lo accompagnerà per tutta una vita sto parlando della nostra, ovviamente.
- Il libro di Alessandro Gazzi, Un lavoro da mediano – Ansia, sudore e Serie A (edito da 66THA2ND, Roma 2022) è un convincente quanto implicito invito ad abbandonare gli stereotipi accettando l’idea che, nello stesso calciatore – come d’altronde in ciascuno di noi – trovino posto e si esprimano istanze diverse, a volte fin contrapposte. Lo si può leggere in termini di cronaca e storia del calcio, per certi versi anche come una specie di “romanzo-verità”, ma, a me, ha interessato come documento – un diario onesto fino a soffrirne che si fa documento (‘documento’ ha la stessa origine della parola ‘docente’, dal latino ‘docere’, insegnare, informare): su una persona, in primis, ma anche su un contesto culturale e sui valori che, per quanto contraddittorii possano apparire, lo animano. Gazzi lo ricordo in campo e, leggendolo ora, mi stupisco di quanto somigliasse al Gazzi che, ora, scrive al netto, ovviamente, di quella sua complessità che qui, in questa “ricerca del tempo dedicato”, veniamo a scoprire. Totalmente alieno da intenti agiografici e libero dalla trita retorica sportiva, questa disamina critica del suo percorso dal settore giovanile fino al professionismo in Serie A sorprende per l’analiticità fin impietosa con cui passa in rassegna la lunga penombra che, non senza incertezze, ha attraversato. Tenacemente orientato al compito, testardo e pur incline a dolorosi momenti di depressione, salvato più volte dai suoi indispensabili punti di riferimento preziosissima la compagna che diventerà sua moglie, Gazzi racconta del limbo in cui crescono quando crescono e vivono i calciatori dei nostri giorni. E’ un limbo che, per certi versi, ricorda un po’ quella famosa ‘caverna’ che Platone ha immaginato per spiegare come nessuno di noi possa mai avere piena garanzia di come stanno le cose: ci siamo imprigionati dentro e possiamo soltanto rappresentarci il mondo esterno grazie alle ombre che si proiettano sulle sue pareti. Troppo poco per nutrire certezze. E viene fin il sospetto che il limbo del calcio possa essere anche peggiore, come se un potente filtro impedisse alla realtà esterna di penetrarvi se non al prezzo di una sua edulcorazione. Il calciatore accudito fino alla perdita della propria autonomia e destinato a sperdersi una volta che da quel limbo volente o nolente venga liberato. Beata ingenuità, lo dico per fare un esempio dell’indotto , quella del calciatore che valuta come economicamente ‘solida’ una società di calcio soltanto per il fatto che è quotata in Borsa. Il linguaggio stesso incalzante, insistente, mai addomesticato con cui Gazzi si racconta attinge prevalentemente se non soltanto alla matrice calcistica: è gergo vivo, parlato e stressato, coinvolgente e affabulatorio tanto quanto, all’opposto, è consapevolmente laconico il protagonista che più in là di un ‘sì’ e di un ‘no’, o di un ‘mah’, nel contesto presumibilmente non è mai andato.
- Con questo documento in mano, soppesandolo ben bene e assumendo la prospettiva dei ‘bisogni’ di un calciatore professionista o meno che sia, si comprende quanto possa far male il silenzio degli allenatori. Frullano e spesso mal si combinano nella mente e nel corpo del calciatore dubbi, paure, sensi di colpa, ambizioni proprie e altrui, pressioni esterne (la famiglia, la cerchia amicale, i procuratori, i media, i tifosi….) che diventano insopportabili nel momento in cui il punto di riferimento essenziale del proprio lavoro, l’allenatore, improvvisamente si assenta, non lo guarda più, lo relega sullo sfondo dei propri percepiti, non gli parla per lunghi mesi facendolo sentire reprobo e colpevole, solo, isolato, fin infettante. È una prova di cui, sinceramente, non si vede né l’utile né, tantomeno, la necessità. Se l’allenatore non ha tempo per tutti non faccia questo mestiere; e non capisco come una società che lo assume per valorizzare al meglio l’intero suo patrimonio costituito dai calciatori e dalla loro prestazione, accorgendosi di ciò, non sappia intervenire. Magari rammentandogli che il ‘mister’ non è un burocrate che possa arroccarsi dietro la scrivania delle proprie prerogative e che nella parola, nella ricchezza delle nostre comunicazioni, sta innanzitutto una straordinaria virtù terapeutica .
- Quanto ispira questo ruolo del mediano – di colui che sta ‘nel mezzo’ in un’ideale geometrizzazione del campo da calcio. Nel cantare Una vita da mediano, Luciano Ligabue parlando di “anni di fatiche e botte” gli riconosce implicitamente quello spessore morale che si attribuisce volentieri a chi si sacrifica per il bene collettivo. Al contempo, però, gli nega lo ‘spunto’ tipico di coloro che arrivano al gol. Con il suo libro, Gazzi però dimostra che, per averlo, questo spunto, si tratta soltanto di aspettare il momento buono.