Articolo pubblicato sulla rivista "Il Veses. Finestre sulla Valbelluna"
Ho il possesso della palla, il controllo della situazione. Al che, decido di fare come voglio: un avversario tenta di ostacolarmi, lo dribblo e punto verso la porta. Mi sento padrone. Davanti a me ho un altro avversario, si vuole opporre anche lui ma con un abile finta di corpo sposto la palla verso destra; non vedendo compagni a cui dare il pallone continuo la mia corsa arrivando vicino al calcio d’angolo. Mi rendo conto che sono pressato da altri due ma faccio le cose senza fatica e con una naturalezza anomala. Proteggo la sfera, spalle alla porta e assecondo il mio corpo; intanto, dentro, sento una tranquillità mai provata, come se non ci fosse bisogno di ulteriore sforzo. E la sensazione è stupenda. Ritorno verso il centro e all’ altezza del limite dell’area dopo aver girovagato beato nel rettangolo di gioco tiro, forte. La palla esce, di un soffio, sopra la traversa. Sento il pubblico in subbuglio tra entusiasmo e delusione. Che gratificazione impagabile! Se ci sono un luogo e un tempo che accomunati concentrano in pochi attimi la gioia della mia infanzia calcistica quelli sono sicuramente Prapavei verso la metà di agosto: li si svolgeva il torneo di calcio più bello che abbia mai giocato da ragazzino. Categoria pulcini. Metà anni 90. Tutto era perfetto. L’atmosfera esterna che si creava, andava ad agitare il mio mare emotivo facendo balenare in modo armonioso le azioni del campo con i sogni che avevo in testa: era tutto così eccitante ed esaltante che quando entravo in campo, dimenticavo letteralmente tutto il resto, facendo fuoriuscire da me stesso il puro spirito del divertimento e della competizione. Non ho imparato di certo lì le lezioni sportive ed umane che hanno segnato il sentiero che sarei andato a percorrere negli anni, ma ho avuto la possibilità quella sì, di conoscere l’essenza del gioco ed il piacere assoluto per lo sport intrapreso. E’ bastato poco per rendermi felice. Il terreno di gioco, segnato da calce bianca, non era un campo sportivo ufficiale ma un prato ben curato tagliato con la falciatrice, in leggera pendenza, senza spalti e recinzioni. Al loro posto una stretta strada di campagna, una fila d’alberi; in contrapposizione, il monte Sperone e tutto ciò che gli andava dietro, verso ovest. Poi c’era il tempo, ovvero metà agosto: era quello il periodo dell’estate nel quale almeno per me si insinuava tra le enormi pieghe del tempo libero la naturale e comprensibile noia dovuta all’assenza dai banchi di scuola. Se giugno era elettrizzante perchè mettevo sottoscala lo zaino e luglio divertente perché la mattina andavo all’oratorio, l’inizio di agosto mi lasciava quel filo di insofferenza che i primi giorni di settembre avrebbero tramutato in velato entusiasmo per l’inizio delle lezioni. Ma nel bel mezzo di agosto c’era Prapavei. L’ufficialità dei tornei provinciali più prestigiosi, come ad esempio il Da Lan o il primo maggio di feltre era frantumata: al suo posto, spogliatoi improvvisati, calce bianca e il caldo sole di ferragosto. Tutto per me era perfetto. Sul rettangolo di gioco sedicense avevo modo di sfogare la mia creatività palla al piede: dribbling, passaggi, tiri erano il risultato di ore di allenamento extra nelle infinite partite tra amici. Non c’era nessuna frustrazione, nessuna regola, pochissimi litigi nei pomeriggi “a casa di Checco”. Ma mancava a tratti l’elemento funzionale al mio di divertimento: l’agonismo, il gusto della sfida. E a Prapavei di agonismo ce n’ era nella giusta dose.