CALCIO = SPORT

Articolo pubblicato sulla rivista "Veses. Finestre sulla Valbelluna".

Venti anni di lavoro quindi non possono essere sintetizzati in un curriculum fatto di stagioni presenze e qualche sporadico gol. Venti anni di calcio sono ben di più delle oggettive prestazioni individuali condite di numeri e statistiche a cui ultimamente ci si affida per valutare un calciatore. Venti anni di calcio sono in realtà un mirabolante viaggio nel proprio mondo motivazionale interiore: le emozioni legate al gioco sono forti a volte estreme e le stesse condizionano inevitabilmente l’umore quotidiano. E’ dentro che avviene tutto: si vince e si perde, si cresce, ci si demoralizza e si gioisce, ci si deprime e ci si esalta. Si fa esperienza, si sbaglia e si risbaglia. Ci si rialza. Ci si autorealizza e si cercano nuovi stimoli. Ci si confronta con i propri compagni, si entra nello spirito di una squadra e si condividono emozioni collettive a 360 gradi. Le partite sono battaglie: da una parte le tue paure radicate da chissà quanti anni, dall’altra le convinzioni su cui hai poggiato la tua vita sportiva. E’ un equilibrio labile sul quale poggia il tuo essere, un continuo sbalzo umorale nel quale tutto può cambiare in un niente: come in una settimana la tua autostima cresce a dismisura, così la successiva puoi precipitare in profonde incertezze dalle quali dover riemergere. La fiducia vacilla e ti senti in balia degli eventi. L’ansia o lo stress compaiono puntuali a fasi alterne e modalità multiple riempiendo non solo la mente ma anche il fisico: quando devi per forza raggiungere un risultato e sai che al risultato è legato il destino non solo tuo ma dei tuoi compagni e della società, la partita diventa questione di vita o di morte e la pressione si fa molto, molto elevata.  I risultati sportivi individuali o collettivi che siano, condizionano dunque la tua vita: le vittorie ti fanno stare sereno, quanto alle sconfitte… a volte servono giorni, settimane, anni per metabolizzarle. La delusione più grande io l’ho avuta a vent’ anni quando per poco, in un momento di umana fragilità, stavo per scendere dalla giostra professionistica: ho impiegato parecchio tempo per capire come metabolizzarla, cercando tra le numerose esperienze la via giusta per riappropriarmi di quelle autentiche sensazioni che davo quasi per perse. E mentre svolgo il mio lavoro, tutto questo fare apparentemente invisibile accade sotto la lente d’osservazione di migliaia di persone: allenatore, dirigenza, tifosi, spettatori assistono ad uno spettacolo nel quale tu sei un protagonista e per questo sei valutato, esaltato, criticato. Le tue performance diventano la cartina al tornasole del tuo stato emotivo, di li non scappi. Puoi diventare esempio positivo o negativo a seconda di come ti comporti e la visibilità ti rende ancor più scoperto al giudizio della collettività. Essere un personaggio pubblico ti rende orgoglioso dei risultati raggiunti e allo stesso tempo bersaglio per facili critiche. Alla fine è solo uno spettacolo. Ed io sono solo uno dei tanti attori che si cimentano su un palco stretto e dal quale prima o poi si è destinati a scendere. E’ stato proprio uno spettacolo, si, ed io ho partecipato in svariati ruoli da quelli principali a quello di comparsa: da Viterbo dove ho raggiunto una storica finale playoff per la serie B, all’esaltante campionato cadetto vinto con il Bari sotto la guida di Antonio Conte, dalla prima vera stagione in serie A sempre con i biancorossi, all’amara retrocessione dopo solo due anni. E poi Siena con una salvezza storica (per punti conquistati) e gli anni di Torino e dell’Europa League. Cambiano le categorie e gli obiettivi ma la condizione emotiva è sempre in continuo mutamento un frullatore che accelera il tempo e lo riduce a ricordi conservati nella memoria.