Articolo pubblicato sulla rivista "Veses. Finestre sulla Valbelluna".
“Egonista”. Scusatemi per il bizzarro neologismo, ma frullando vocaboli e ripensando alla mia infanzia calcistica, credo che il termine migliore capace di descrivere il mio carattere dei primi tempi sia proprio questo. Traducevo il mio “essere” palla al piede attraverso egoismo ed agonismo: il primo lo esprimevo cercando sempre il dribbling, provando giocate individuali e pensando sempre a metterla dentro. Essendo nato come attaccante esterno con qualità tecniche offensive avevo la capacità di destreggiarmi con facilità palla al piede, personalità e padronanza non mi mancavano. E’ inutile nasconderlo: mi sentivo più bravo degli altri miei compagni, forse lo ero e probabilmente lo davo anche a vedere. Papà, che fu il mio primo allenatore, cercava sempre di mettere un freno alla mia esuberanza e in un modo o nell’altro me lo faceva capire. Volevo sempre il pallone tra i piedi e detestavo non andare a segno; ogni tanto si, soffrivo qualche impegno ufficiale per una tensione appena sopra la media ma per il resto, mi sentivo sempre all’altezza della situazione. Il mio principale obiettivo era essere il più bravo del paese e non volevo che nessuno della mia stessa età lo fosse più di me. Abbinavo a questa mia naturale tendenza all’ego un altro elemento prettamente correlato: l’agonismo. Fondavo le mie prestazioni sulla voglia di competizione, sullo spirito combattivo e la voglia di non perdere. Mai. Per me ogni partita era trattata come vita o morte: che fosse sull’erba dello stadio di Santa Giustina, sulla ghiaia bianca dai sassolini appuntiti del cortile parrocchiale o sul liscio asfalto del campetto delle elementari poco importava; l’eccitazione dell’attesa caricava a tal punto il mio spirito di fronte agli avversari che qualsiasi competizione diventava davanti ai miei occhi una questione seria, molto seria. Seria a tal punto che la reazione, in caso di sconfitta, poteva variare da una rabbia repressa e silenziosa ad un pianto di qualche minuto. In tal caso, la rabbia sfociava, le lacrime scorrevano e il tutto veniva affievolito da una vergogna pubblica che ridimensionava il drammatico evento a cui ero andato incontro. Dunque, orientativamente, i primi anni di calcio giocato erano indirizzati su questi binari emotivi: al centro di tutto c’ero io, le mie capacità e la mia oggettiva bravura che mi consentiva di primeggiare sui compagni della mia età: tant’è che fin dalle prime sfide nella categoria esordienti ci sono sempre stati osservatori che venivano “dalla bassa” , a visionare le mie acerbe performance sportive; ed io supportato dalle considerazoni che ruotavano attorno a me non potevo che essere motivato e sicuro dei miei mezzi tecnici.