NEL RUOLO DI VICE ALLENATORE

Alcune considerazioni sparse sull’esperienza nel Torino U17, stagione calcistica 2022/2023.

 

Mi trovo a pochi metri dal responsabile del settore giovanile del Toro, accanto agli altri componenti dello staff, davanti ai ragazzi.  Li guardo uno ad uno. Alcuni, sembrano bambini. Sono bambini.

Quest’anno ho intrapreso il ruolo di Vice nello staff di Mister Aniello Parisi. E’ stato tutto molto veloce: non c’era la possibilità di allenare, ho accettato la possibilità di comprendere meglio come allenare e di posizionarmi in un ruolo che molti addetti ai lavori, nel mio recente passato, indicavano ideale per le mie attitudini lavorative. Ho impiegato qualche mese per adattarmi alle nuove mansioni e ad analizzare in parte quelle dinamiche e quei meccanismi relazionali che caratterizzano la fascia d’età con cui mi confrontavo. Una fascia che naviga su un limbo nel quale i sogni, le aspettative e progetti più realistici di ogni singolo ragazzo si mischiano in un vortice dalla comprensione ostica. Il tempo poi chiarirà la strada di ognuno di essi.

Approcciando i giovani in questa fase di crescita si nota chiaramente una più che valida somiglianza con quello che avviene in tutti gli altri spogliatoi. Mi spiego: a livello di squadra, le relazioni e le dinamiche tra i giocatori, i gruppi e gruppetti, l’individuazione del o dei leader non si discosta molto da quello che ho visto tra i grandi. Uno spogliatoio è uno spogliatoio sia in U17, sia in una squadra di terza categoria, sia in una corazzata da Champions. Ciò che realmente cambia è il ventaglio molto più variegato di comportamenti e reazioni che nel calcio pro ero abituato a vedere in modalità del tutto differenti. Un gol sbagliato equivale alla disperazione totale, un gol realizzato a una gioia sconfinata. E su questo, si percepisce chiaramente una purezza istintiva (se così si può dire), dettata dalla giovane età. La larghezza espressiva delle emozioni si basa sull’ ancora acerba maturità di gestione dei propri stati d’animo. E’ solo questione di esperienza. Le loro impressioni e opinioni, vagano sugli stessi saliscendi emotivi. Notare questa genuinità mi ha divertito molto anche perché osservando i ragazzi ho rivisto, almeno credo, tratti di me alla loro età.  

Al di là del fatto che avvicinarmi ancora di più al ruolo dell’allenatore mi consente di approfondire in maniera sempre più analitica (forse troppa) ogni singolo aspetto del mestiere, dalla preparazione degli allenamenti ai video tecnico tattici per i ragazzi (per non parlare del vivere la partita dalla panchina, cosa che ancora non avevo vissuto da allenatore), le libertà che mi ha concesso Mister Parisi nel rapporto e nella comunicazione con la squadra mi hanno consentito di sprofondare in quel pianeta giovanile popolato di , maranza, maranza fake e altre categorie di esseri umani che a diciassette anni stanno per prendere il volo dell’età adulta. Sapere che le scarpe total-white sono la scelta prediletta di chi vuole fare il figo ricorda molto quando alcuni miei coetanei a fine anni ’90 si presentavano con jeans strappato e scarpa Cult. Oppure quando le marche più in voga nella scuola periferica romana che frequentavo - Istituto B. Pascal a Prima Porta - erano Crazy Duck, Lonsdale e Pickwick. Dal punto di vista della Fashion style pallonara si potrebbe aprire un capitolo, o forse un libro, sulle mode che imperversavano gli spogliatoi degli anni 2000. Ma forse è meglio chiudere subito questa parentesi ricordando che agli esordi tra la Serie C e la Serie B, le scarpe più in voga tra i calciatori della seconda fascia professionistica erano i modelli di Prada, Cesare Paciotti e Walsh.

Una delle domande che mi vengono poste riguardo i giovani che alleno è la seguente: quanti dei ragazzi che stai allenando possono arrivare nel massimo campionato? C’è qualcuno che può ambire ai grandi palcoscenici? Con la Serie A che vede sempre meno italiani tra i protagonisti è sempre in voga l’analisi sui motivi per cui questa crisi nella formazione dei giovani sta diventando più lampante (lo sta diventando realmente?). Settori giovanili poco produttivi, allenatori che mettono davanti loro stessi alla crescita del giovane, stranieri facilitati nell’inserirsi nel palcoscenico professionistico. Un bel miscuglio di argomenti che intrecciati tra loro garantiscono dibattiti necessari e spesso produttivi in termini di confronto e dialogo. Per quel che ne so, a memoria, ricordo che a inizio anni Duemila si parlava già del poco spazio offerto ai giovani per mettersi in mostra. ”Bisogna dire che la crisi economica del pallone ha convinto molte società a ridurre i costi, offrendo più spazio a noi giovani”. Dicevo così in un intervista al Guerin nel lontano 2003, alla tenera età di vent’anni (al tempo alla Viterbese) lamentando già al tempo una carenza di spazio dove potersi esprimere calcisticamente. E detto da me, a quell’età, mi fa sorridere… L’argomento quindi è sempre di grande, grandissima attualità. Mi sento di dire con grande franchezza e con un grado di “scontatezza” abbastanza alto che a questo punto il problema o il trend vada ricercato solamente nella complessità di tutti i fattori che ruotano attorno alle nuove generazioni e al sistema calcio che è per mille motivi lontano parente di quello di tre decadi fa. Certo, trovare una soluzione ad una più spiccata produttività di talenti non è facile come del resto capire se i rapporti che indicano questo trend negativo siano validi, ma andare a indagare alcuni punti chiave della crescita calcistica dei ragazzi credo sia doveroso. Ad esempio riflettevo qualche giorno fa sulla motivazione e sulla determinazione che un ragazzo può avere nel giocare a calcio. E via via, mentre pensavo, una serie di domande si formulavano e riformulavano continuamente nella mia testa inabissando le riflessioni in un fondo che non riuscivo nemmeno a intravedere. La motivazione, e in particolare la motivazione per uno sport come il calcio: come alimentarla? Come la alimentavamo ai nostri tempi? C’è la stessa motivazione nei ragazzi di oggi? Perché il numero di tesserati, dopo i quindici anni tende a diminuire sempre di più? Come possono crescere promettenti profili se il numero di abbandoni aumenta? Quante alternative, per un ragazzo che abbandona lo sport, sono presenti sul mercato sportivo e ludico? Su quali valori emotivi il calcio italiano può attrare nuove leve? E quindi, ritornando al punto di partenza: come posso far sì che il ragazzo rigeneri e autoalimenti la propria passione? Quale significato ha, per lui, il gioco del calcio? Lo so, sto divagando, ma almeno ho buttato lì qualche domanda giusto per ragionare su  possibili soluzioni. E ritornando alla prima domanda (Quanti ragazzi possono arrivare in Serie A?) domanda tra l’altro dalla risposta abbastanza “ovvia”, propongo una riformulazione della stessa. Quanti dei ragazzi che giocano a calcio, nel complicato dinamico misterioso e causale meccanismo che caratterizza la loro crescita possono intravedere quello spiraglio che consenta loro di annusare la possibilità di poter lavorare anche solo per qualche stagione da calciatore professionista?

 

 

Photo by Maurizio Dreosti.