Articolo pubblicato sulla rivista "Veses. Finestre sulla Valbelluna"
Treno. Regionale. Undicimila. Cento. Venti. Nove. Proveniente da. Pontenellealpi. Per. Padovacentrale. E’ in arrivo al binario 1. Meccanica e preregistrata, la voce del ferroviere proiettata negli altoparlanti della stazione di Santa Giustina è il riflesso sonoro degli scalini calcistici della mia adolescenza. A 13 anni venni tesserato per la squadra trevigiana del Montebelluna, un autentico vivaio nel quale venivano inseriti i migliori giovani in circolazione. Già da qualche anno osservatori provenienti “dalla Bassa” tenevano d’occhio le mie prestazioni sportive ma nonostante ci fossero state già richieste e opportunità di crescita notevoli io navigavo sempre in quel mare di paura infantile tipico di un bambino ancora legato alla famiglia, agli amici e alla propria terra. Poi, un giorno verso maggio o forse giugno del ‘96 sentii di essere pronto per navigare su mari ignoti. Per partecipare agli allenamenti e scendere nel capoluogo della Marca ero costretto a prendere il treno che in poco meno di un’ora mi portava a destinazione. 3, 4 volte a settimana borsa in spalla e abbonamento in mano prendevo posto in carrozza dove assieme ad altri miei coetanei intraprendevo il viaggio nel quale sfilavano dal finestrino in veloce successione Dolomiti, Prealpi, Pianura Veneta. I primi tempi furono complicati e bellissimi: non è stato semplice abbandonare i miei compagni della Plavis, ma d’altronde il primo scalino consisteva proprio nel lasciare le certezze insite nei consolidati rapporti tra gli amici del paese. Forse fu una reazione spontanea e normale ma si accavallarono piano piano ansie da cambiamento: avevo il timore di essere visto con un occhio diverso dai miei ex compagni: d’altronde io avevo opportunità maggiori che non tutti hanno la fortuna di avere e il fatto di non essere più dentro la mia ex squadra inizialmente aveva raffreddato dialogo e sintonia. Dunque per la prima volta in vita mia (calcisticamente parlando) dovevo ambientarmi in un contesto sconosciuto e distante da casa. La mia rigidità caratteriale mi mise a dura prova; facevo fatica ad aprire bocca con i nuovi compagni, mi sentivo un po’ fuori dal gruppo e le abitudini di gioco consolidate negli anni passati venivano meno. Sarò magari esagerato ma piccoli e innocui dettagli come l’inflessione dialettale mi destabilizzavano facilmente: “al balon” in trevigiano diventava “a baea”. Nel mio piccolo dovevo fare passi da gigante. Ero, sotto certi aspetti, terrorizzato: inoltre, le migliori abilità tecniche ed il livello superiore al quale andavo incontro mi mettevano in soggezione; quindi dovevo cercare di farmi spazio non solo attraverso il dialogo verbale (che di sicuro non è il mio forte) ma anche e soprattutto attraverso la conferma e il miglioramento delle mie capacità tecniche sul campo di gioco per dimostrare agli altri che sarei stato alla loro altezza. Solo il tempo sciolse tutte le insicurezze e dopo i tentennamenti iniziali dovuti anche alla ricerca del ruolo giusto in campo tutto divenne più familiare. Cominciai a giocare da centrocampista centrale, zona dove mi sentivo più a mio agio. Presi fiducia, confidenza e con qualche parola in più entrai a far parte di una grande avventura: avevo modo così di confrontarmi con pari età ben più abili e strutturati di me ed il livello generale del campionato, mi consentiva di affinare le mie doti tecniche. Impiegai quindi un anno per essere me stesso e interagire con naturalezza. E il secondo anno ebbi anche la fortuna di laurearmi assieme ai miei compagni Campione d’Italia squadre dilettanti nella categoria giovanissimi. Fu così che iniziai un percorso calcistico che nell’arco di tre splendidi anni fatti di scuola, treno e allenamenti mi portò a vestire nella categoria Allievi nazionali, la maglia biancoceleste del Treviso.